I caprioli del Castellaccio
I caprioli del Castellaccio
La strada che esce da Faenza ti accompagna tra filari di viti e kiwi fino a Santa Lucia. Si lascia la trattoria Manuelì, un piccolo pezzo di storia della Romagna enogastronomica, che resiste con successo; e poi si arriva al bivio di Oriolo. Che si fa? A destra su per Pietramora tra gli ulivi del Brisighello o dritto verso il Castellaccio e poi verso il Trebbio? Sganci i pedali e pensi. Ne hai tutto il tempo. Nel silenzio, all'ombra dei faggi che rassicurano le tue scelte. Quando la collina in questi bivi costringe alle scelte tra posti così belli nello sfavillio autunnale, l'animo avverte ondate di gioia e si pervade di quegli odori, di quei colori che il soffio del vento unisce a quello dell'anima. Allora fiducioso ti affidi a questa ispirazione che non capisci, non vuoi nemmeno capire. Forse non dovresti nemmeno cercare di capire. Vada per il Trebbio, anche se ci sarà quella rampa dura all'inizio. I colori ti invadono dappertutto, ti circondano, fanno di te e della tua divisa bianca e azzurra una macchia tra le tante su quella tela, sia nei pendii battuti dal sole d'ottobre, ancora tenace e coriaceo, sia in quelli in ombra, dove la bici segue sinuosi profili curvilinei, che hanno un potere sempre particolare sui loro correlati oggettivi: il giallo precoce, il verde tenace, il rosso del trascolorare di fronde infondono nell'anima un senso di pace e di speranza, di forza e di fiducia, che fanno passare le due rampe al 16% senza neanche accorgersene. Si arriva ai primi tornanti del Castellaccio e il paesaggio, mentre la bicicletta sale e suda con te, affianca alla fatica dell'erta la visione delle lontane case della città e di qualche svettante, solitario campanile. Il silenzio del pomeriggio di metà settimana è interrotto sulla tela solo da qualche figura di personaggi al lavoro: un trattore che passa, qualche agricoltore che controlla le vigne dopo la vendemmia, qualcun altro che attende i kiwi per iniziare la raccolta. Silenzio. Solo la ricerca di agilità su quei pignoni là dietro, che vorresti non finissero mai, lo rompe con i clic sul cambio. Altro non si sente. Brusco l'asfalto, imperfetto nel suo grigiore: ma lì non nuoce che sia così. Rare, rarissime le auto. Il bello dell'Appennino è la pluralità di strade che in queste occasioni, soprattutto in autunno, offre in uno stato idillico di pace quasi arcadica, nella totale immersione nel paesaggio, senza motociclisti, senza autobus, senza file di camper asfissianti di gasolio, come ormai è regola sui maestosi passi dolomitici, blasonati e belli solo da guardare in tv al passaggio del Giro, quando invidi quei corridori che possono goderseli senza auto. Il bello dell'Appennino è il modo in cui dona colori a piene mani in ottobre. Rallento. La fatica inizia a farsi sentire negli ultimi tornanti. Il Castellaccio non è lontano. Rallento e ascolto l'anima che ha qualcosa da dire. Il vento accarezza il casco, entra tra le fessure. Il soffio del vento comunica sempre con quello dell'anima. Ascolto. Perché so che, quando avverto questa sensazione, succede sempre qualcosa di importante. Procedo lentamente, animale nel paesaggio, animale tra gli altri animali, non mi sento intruso. So di non far del male con la mia presenza discreta, silenziosa, rispettosa. Sono fiducioso del mio procedere e della mia salita, lenta, en danceuse. Il vento ti continua ad entrare tra le fessure, oltre che nel casco, anche sul torace, che denudi a lui nell'illusione di traspirare meglio. Si tratta di un vento più fresco. Dal bivio con la strada dell'eremo di Monte Paolo sono salito di 300m in 4 km, molto irregolari, fatti di strappi nervosi, secchi. Ma so che dopo il Castellaccio non sarà più così. So che dopo si aprirà un altro mondo lassù. Il vento comunica ricordi dolci, porta serene immagini: una spiaggia, un aquilone, il nonno, me bambino; e poi un lago, una barca, un lido, un prato, con l'altro nonno; e poi dei corvi, le rocce del Grossglockner, e i miei genitori. Sempre vento, vento del Tempo, che comunica con gli spazi, spazi diversi, spazi di fiduciosa forza nel futuro. E la gamba va. Ha avuto un dono dalla memoria. È questo il doparsi più bello. Ultima rampa; poi al Castellaccio spiana, dicono tutti. Non sarà esattamente così, ma un po' di verità possiamo concederla ai redattori di itinerari. La fatica non si sente più. La memoria interviene sempre; e lo fa foriera di forza. Il pedale gira sicuro. Ha trovato il suo ritmo. Sui pignoni la catena ha trovato pace. La gamba va.
Castellaccio. Finalmente. Una curva in ombra tra due possenti querce, con il loro codazzo di faggi, una di qua e una di là dalla strada ora molto più stretta. Sembra di passare sotto un'antica porta naturale. In effetti si tratta veramente di un'esperienza molto particolare per il ciclista scoprire cosa avviene, appena passata quella curva ombreggiata dalle due antiche querce.
Si apre un pianoro aprico che sostituisce al coltivi di prima, paesaggio costruito dall'uomo, prativi e pascoli, modellati solo dal vento e dal Tempo. Mi fermo come se fosse uno scollinamento. Non devo scendere. Non devo mettere né antivento, né mantellina. Non voglio. Anzi, abbasso ancora di più la zip della maglia: voglio in me la forza di quel vento. Il sole domina su tutto il pianoro. Due sole case: una abitata; l'altra dall'aspetto abbandonato. Un rumore da lontano. Una scena che, se noi non sapessimo che lì può semplicemente e naturalmente verificarsi, sarebbe descritta come d'altri tempi: si avvicina un calesse trainato da un asino, guidato da un signore giovale con un grande cappello a larghe tese, che saluta agitando il frustino: “Salùt! U's cmênza a stè bên. L'era ora!” “Ah si – rispondo – mo da vnì so l'è dura li stes, nêca s'un'è brisa chëld”. “Aj'ò propi vest. Tci za cot e' tot, pront da magnè”. La battuta non è nuova, ma gli do soddisfazione e rido. L'asinello riprende la marcia; lo aspetta in discesa la strada che ho appena fatto in salita. Non sembrava condividere la giovialità di chi lo stava conducendo.
Riaggancio il casco, rimetto i guanti, riaggancio gli scarpini. E via. Iniziano i saliscendi in quota che dal Castellaccio portano al Trebbio. In 7 km si salirà di appena 250m, passando dalla valle del Samoggia a quella del Marzeno. Luoghi praticamente sconosciuti a chi romagnolo non è. Strade battute da un sole complice con te del segreto che custodisce. In questo paesaggio unico, costituito dal pianoro in quota, si sta come sospesi tra due vallate. Gli alberi sono rari. I pascoli costituiscono la nota dominante. In questo paesaggio si assapora come in pochi luoghi il significato del ruolo di noi esseri umani nell'ambiente: elementi tra gli elementi. Salendo di quota, tra strappetti nervosi e brevi discese, siamo costretti ad entrare in una comunicazione che solo chi ama la montagna riesce a comprendere. Il silenzio, nota dominante, ti insegna che questa comunicazione è costituita solo di due elementi: ascolto e rispetto. Per ascoltare e rispettare non occorre esibirsi a parlare; non occorre alzare la voce; non occorre niente di ciò che hai già, anche se non lo sai; è sufficiente sapere valorizzare il silenzio, che ti parla con una voce che alla partenza, tra le ultime case della città, non avrebbe mai potuto utilizzare: il soffio del vento che sibila tra le fessure del casco. Da sempre, dopo aver percorso migliaia di chilometri su queste strade, non appena l'erta prende quota, ho imparato ad avvertire una voce che parla non solo in quel vento, ma anche negli odori che ti pervadono. Il momento della fatica del salire, fatto di lenta inspirazione e lunga espirazione, è quello in cui quel paesaggio entra in te, ti pervade e viene poi restituito con atto di riconoscenza al territorio di cui fa parte. Qui si pratica prima ascolto, inspirando, poi rispetto, espirando. Ma bisogna venire su da soli per comprendere tutto questo. Sono esperienze dello spirito, non facilmente comunicabili. Da vivere. Un atto d'amore che si può vivere con il senso del sacrificio, del dolore, della conquista. Quando i muscoli potranno rilassarsi, finalmente liberi, avrai il premio meritato.
E il premio non tarda. Eccoli lì. Meravigliosi. I caprioli del monte Trebbio. “Attenti ai caprioli. Possono far paura. Sono pericolosissimi. Spuntano all'improvviso e ti fanno cadere, i maledetti.” La voce popolare è impietosa contro di loro, quando prende le forme dei cicloamatori da bar della domenica. Non sa ascoltare, non sa rispettare. Inspira ed espira smog e aria diversa da questa. Mi sono fermato a circa 40 m da loro. Due sono a destra sul bordo della strada, uno a sinistra in mezzo ai prati. Sgancio i pedali. Scatto una foto. Da lontano purtroppo viene sgranata con il telefonino di generazione troppo vecchia. Ma si vedono tutti e tre. Non importa. Sono troppo belli: resteranno nella memoria, anche se non nel telefonino. Smonto e a piedi mi avvicino. Mi viene da sorridere. Rimettendosi a girare la ruota anteriore, riparte il contachilometri e segna una media, quella che poi nei bar viene confrontata tra patiti del tecnociclismo. Sarei proprio curioso di sapere, giù a Modigliana, alla fine della discesa che dovrò compiere, come verrebbe analizzata questa di una bicicletta portata a mano. Mi diverte la cosa. Mi diverte perché non mi sento adesso elemento di quel paesaggio, ma elemento di questo paesaggio. I caprioli non scappano, mentre mi avvicino lentamente a loro con la bici a mano. Questa è la prova. Mi avvicino ancora. Sempre lì: due a destra sul ciglio della strada, uno a sinistra più distante in mezzo al prato. Sono ormai arrivato da loro. “Spuntano all'improvviso e ti fanno cadere, i maledetti”. Non sono spuntati affatto all'improvviso. Sono lì, a casa loro, tranquilli. Mangiano, guardano, ascoltano, rispettano. E anch'io prendo una barretta dal taschino e mangio, guardo, ascolto e rispetto. E non sono caduto. I due sulla destra mi puntano gli occhi addosso. Pensano ad uno strano collega forse. Forse mi compatiscono per il buffo casco, o per la divisa bianca e azzurra, o per la bici tutta bianca. Chissà perché mi puntano così? Non hanno nessuna paura. Riprendono a mangiare. E io finisco la mia barretta. Passo accanto a loro, che continuano a mangiare, come se nulla fosse. Sento un fischio da lontano, fischio umano. Da una curva arrivano a gran velocità due ciclisti. I caprioli scappano terrorizzati. I due ciclisti mi salutano passando veloci, neanche accorgendosi dei caprioli che hanno terrorizzato. Ecco chi spunta all'improvviso! Ecco chi può far paura! Altro che i caprioli. Lezione imparata. Ennesima grande lezione imparata. Non è stato affatto difficile impararla. A me è bastato fermarmi, pensare e fare le stesse quattro cose che loro tre facevano: mangiare, guardare, ascoltare, rispettare. Elemento tra gli elementi. Un boschetto di cipressi e faggi segna la fine del pianoro e l'arrivo sotto i ripetitori del monte Trebbio. Inizia la discesa al bivio con la provinciale trafficata, che collega Dovadola in val Montone con Modigliana. Altro mondo, altro paesaggio, altro vento, altro spirito. Il vento entra con violenza tra quelle fessure che prima sfiorava. Il vento ti risucchia, quando un automobilista ti sorpassa innervosito, perché per ben due curve non è riuscito a superarti. Gli elementi sono cambiati, ma soprattutto i fattori sono cambiati. Lo spirito è cambiato. La discesa è il premio della salita, si dice tra ciclisti. Oggi non è vero. Il mio premio è stato ben altro. Come sempre, lassù. E resta quaggiù, solo quaggiù, dentro di me. Lo spirito di lassù, lo spirito del Tempo, che nel vento ha parlato, mi ha pervaso con immagini. Allora quelle immagini sono diventate materia del lavoro dello spirito, hanno preso significato allegorico, sono passate dalla dimensione dei sensi a quella dei sogni, delle emozioni. E solo due anni e mezzo dopo riusciranno a assumere quella forma che oggi qui in queste parole hanno preso. Forse.